Il conflitto si è allargato in Pakistan e i talebani continuano ad essere un nemico difficilissimo da affrontare
da What's Up giugno 2009
(ndr questa intervista è stata rilasciata prima che la situazione in Afghanistan peggiorasse, cosa che sarebbe avvenuta di lì a pochissimo tempo...)
In Afghanistan la guerra va avanti ormai da otto anni e il paese, uno dei più poveri al mondo, sembra non riuscire a ricostruirsi mai. Il governo di Kabul ha difficoltà ad imporre la propria autorità. Il 18 maggio un convoglio che trasportava il fratello del presidente, Ahmadi Wali Karzai, è stato attaccato da un commando armato di lanciagranate e fucili d'assalto uscendone miracolosamente illeso. Gli attentati da parte dei talebani sono spesso rivolti contro le istituzioni o la polizia locale e hanno come vittime principalmente militari e civili afgani . Negli ultimi mesi il fronte della guerra contro i talebani si è spostato a oriente, verso la frontiera del Pakistan. La strada che da Kabul attraversa il Khyber Pass e raggiunge Islamabad, per la quale passano molti dei rifornimenti americani, è diventata molto insicura e tutte le aree tribali del Waziristan e della regione di Swat riversano combattenti talebani in Afghanistan rendendo pericolose le zone di frontiera.
Gli americani si sono di recente affidati ad un nuovo comandante, il Generale Stanley McChrystal, fortemente criticato in passato per le sue responsabilità dirette nell'uso della tortura su prigionieri iracheni (e per la morte di uno di essi) e oggi chiamato da Obama a risolvere il problema dei guerriglieri talebani in Pakistan. Per noi italiani è presente nella regione afgana il Generale di Divisione Marco Bertolini.
In Afghanistan sono presenti circa 2800 militari italiani con il comando nella provincia nord-occidentale di Herat. Quali sono le direttive specifiche della missione militare?
"I militari italiani in Afghanistan si attengono ai compiti conseguenti dalla missione di ISAF, della quale fanno parte. Tale missione, in sintesi, consiste nel supportare il Governo afghano (Govern of Islamic Republic of Afghanistan – GIRoA) nell’affermare il suo controllo e la sua autorità nel Paese. In tale contesto, le operazioni di ISAF si concentrano nel settore della Sicurezza, della Governance e della Ricostruzione e Sviluppo. La Sicurezza rappresenta la condizione indispensabile per poter sviluppare una Governance efficace, in un paese molto articolato e “complesso”, e per poter sviluppare un’altrettanto efficace attività di Ricostruzione e Sviluppo. Per la Sicurezza, le unità di ISAF operano soprattutto a supporto delle unità dell’ANA (Afghan National Army) e dell’ANP (Afghan National Police). A favore di ANA ed ANP è in corso una articolata e complessa attività volta a svilupparne le capacità, al fine di consentire agli Afghani stessi di gestire in prima persona le sfide alla loro sicurezza. Tale attività viene svolta dagli OMLT, unità dell’Esercito Italiano (e degli altri Eserciti), che operano letteralmente all’interno delle unita’ afghane".
Le vittime civili del conflitto salgono sempre più di numero. Facendo una media su tutte le stime disponibili, dal 2001 sono quasi 10mila e solo nel 2008, secondo l'Onu, sono 2118, in gran numero causate dalle forze della Coalizione. In questi giorni è avvenuta la strage di civili più sanguinosa nella storia del conflitto ad opera del contingente americano: si parla di 120/150 morti non combattenti nella provincia di Farah. Come si pongono le forze militari italiane di fronte a queste situazioni?
"La premessa della domanda è imprecisa. ISAF non si sottrae alle sue responsabilità, ma l’80% circa delle vittime civili in Afghanistan sono causate da azioni degli insorti. Pochi hanno notato, ad esempio, che il giorno stesso in cui balzava all’attenzione dei media internazionali la tragedia della Provincia di Farah, conseguente ad un intervento aereo statunitense a supporto di un’unità afghana attaccata durante una normale attività di pattuglia, gli insorti bombardavano con razzi una scuola femminile in una Provincia al confine col Pakistan e, due giorni dopo, un suicida si faceva esplodere in una zona nel sud del Paese causando molte perdite tra la popolazione ed uccidendo 2 soldati britannici.
Per tutti i militari dei vari contingenti, e non solo per i soldati italiani, ogni vittima civile rappresenta motivo di grande dolore, soprattutto quando causata dalle nostre azioni. Non siamo qui, in Afghanistan, per uccidere innocenti e siamo consapevoli che il dolore causato ai parenti ed a tutta la società da questi eventi non può essere cancellato. Al contrario, la sicurezza della popolazione locale è al centro di tutti i nostri sforzi e, se mi permette, di tutti i nostri sacrifici, per cui ogni morte ed ogni ferimento di civili rappresenta una cocente sconfitta per tutti noi. Ma la situazione nel Paese è complessa e bisogna considerare che in tutto il territorio, con particolare riferimento alle province meridionali, si svolge un aspro confronto con entità di insorti agguerrite e ben equipaggiate, che spesso si nascondono tra la popolazione. I nostri soldati frequentemente si astengono dal rispondere ad attacchi proprio per non coinvolgere innocenti, ma questo, ovviamente, non è sempre possibile".
La missione militare italiana in Afghanistan, malgrado abbia scopi di peacekeeping, si trova spesso in situazioni in cui lo scontro a fuoco è inevitabile. Come vengono vissuti dai nostri soldati questi momenti?
"Tecnicamente parlando, non si tratta di una missione di Peace Keeping ma di Peace Enforcing. La differenza tra le due sta nel fatto che nella prima sussiste un accordo di pace tra le parti che forze internazionali devono semplicemente garantire con la loro presenza, mentre nel secondo la pace non è ancora conseguita e deve essere imposta, spesso anche con l’uso delle armi. Quanto ai nostri militari, non è la prima volta che si trovano ad affrontare situazioni del genere (penso, ad esempio, alla Somalia, dove addirittura impiegavamo militari di leva, che non si tiravano indietro).
Se poi Lei vuole sapere come i nostri soldati vivono sotto il profilo emozionale tali evenienze, mi chiede di affrontare aspetti soggettivi difficili da trattare. In ogni caso, per tutti il coinvolgimento emotivo è profondo. Ma i nostri soldati, come quelli degli altri Paesi, sono consapevoli della loro funzione e dei rischi ad essa associati e li affrontano con determinazione".
Recentemente vi siete trovati coinvolti in uno spiacevole incidente in cui ha perso la vita una bambina di 13 anni. Delle regole d'ingaggio se n'è parlato, così come dell'errore dei civili o dei militari, ma, per quanto riguarda la dimensione umana, cosa succede nella popolazione locale quando avvengono eventi del genere? Come percepisce la popolazione locale la presenza di forze armate straniere che possono commettere anche errori molto gravi? Ci sono stati momenti di confronto con la popolazione locale?
"Quello dell’uccisone di una ragazzina di 13 anni di qualche tempo fa ad opera di una nostra unità è un dramma che ha fortemente coinvolto tutto il nostro contingente. Non c’è dubbio che si è trattato di un incidente, ma è anche altrettanto certo che i nostri ragazzi si sono attenuti alle Regole di Ingaggio ed alle procedure in vigore, per affrontare quella che avevano percepito come una minaccia. In merito sono in corso varie inchieste e non voglio aggiungere altro.
Relativamente alla reazione della popolazione, è chiaro che il dolore per i parenti della piccola vittima è inconsolabile, ma da parte delle autorità e del resto della popolazione c’è stata comprensione e non si sono verificati episodi di contestazione nei nostri confronti. Questo anche perché i legami che si sono venuti a creare tra gli Italiani ed i locali sono forti e tutti riconoscono gli sforzi ed i sacrifici che i nostri uomini fanno per assicurare alla popolazione locale le migliori condizioni di vita.
I nostri ragazzi, ovviamente, hanno sofferto profondamente l’accaduto, anche se sanno di non doversi rimproverare nulla. Ma questa consapevolezza, ovviamente, non basta a far dimenticare un episodio che credo segnerà per sempre le loro vite.
Vorrei proporre una riflessione. Se è vero che l’accaduto rappresenta un dramma, è altrettanto vero che sarebbe da considerare un dramma l’atteggiamento di rinuncia che potrebbe essere indotto nei nostri uomini dalla paura di dover sostenere pressioni, da parte dei media e delle autorità, in caso di altre situazioni delicate. A loro, infatti, è richiesto di continuare ad operare nello stesso ambiente pericoloso nel quale si sono svolti quei fatti, e se scegliessero di rinchiudersi nei campi al fine di evitare situazioni dolorose come quella in questione, i primi a rimetterci sarebbero gli Afghani, che verrebbero abbandonati a loro stessi".
Come vive un giovane militare italiano una esperienza professionale così forte, in una zona a rischio e con compiti così rischiosi per la propria vita? Che clima si vive?
"Non ho l’età, purtroppo, per farmi interprete dei giovani soldati di oggi. Ma anch’io sono stato un ragazzo e mi sono trovato come loro ad affrontare analoghe esperienze difficili e coinvolgenti (parlo di Libano nel 1981, di Somalia e di Balcani essenzialmente). Non c’è dubbio che queste esperienze maturano molto sotto il profilo morale. Si è a contatto con popolazioni diverse dalle nostre, che si impara velocemente ad ammirare per la forza con cui fanno fronte a difficoltà che per noi sarebbero inimmaginabili. Si vede e si comprende il mondo per quello che è veramente, senza gli effetti distorsivi innescati da quel filtro poderoso che è la televisione. In altre parole, ci si sprovincializza alla svelta e ci si rende conto di quanto il nostro ricco e spaventatissimo Occidente sia in errore nel trattare con supponenza e con disprezzo chi spesso è migliore di noi, per semplicità, frugalità, disponibilità al sacrificio, senso dell’onore e rispetto per le persone. Si capisce, soprattutto, che se siamo nati nella nella parte ricca del mondo non è certamente per nostro merito".
Negli ultimi mesi, riferendosi al conflitto in questa regione, si parla spesso di Af-Pak, ossia di Afghanistan e Pakistan, con riferimento all'allargamento del fronte verso le province confinanti del Pakistan a causa dell'esodo in quelle aree della popolazione civile e degli attacchi talebani provenienti, appunto, dal Pakistan. Gli americani sono attivamente impegnati sul piano militare. Che ordini ha a riguardo il contingente italiano? Cosa pensate di questo decentramento del conflitto verso oriente?
"Afghanistan e Pakistan sono sicuramente legati da un destino comune. L’instabilità in uno dei due paesi non può che riflettersi in una corrispondente instabilità nell’altro. Di questo, ormai, tutta la Comunità internazionale se ne è accorta ed anche i due paesi si stanno comportando di conseguenza, cooperando sempre più fortemente. In ogni caso, tale situazione non incide sui compiti del contingente italiano, che è inquadrato in ISAF, unicamente finalizzata al supporto del Governo afghano. In altre parole, nessun contingente di ISAF è coinvolto con operazioni di alcun genere in Pakistan".
Spesso si ha l'impressione che qualsiasi azione militare americana sia innegabile e giustificata, mentre gli altri contingenti devono inevitabilmente avere il consenso statunitense per muoversi. Oltretutto il presidente afgano Karzai è stato spesso definito “sindaco di Kabul” per sottolineare la sua poca autorità fuori dalla capitale. Com'è il rapporto tra il comando militare italiano e le autorità afgane? Fate riferimento a loro per parlare e decidere interventi militari, o il vostro interlocutore rimangono i vertici militari dell'Isaf guidati dagli americani? L'attacco americano alle province pakistane è stato pianificato con il comando internazionale?
"Il Comandante di ISAF è americano, ma il Comando in se è NATO, vale a dire composto da Ufficiali di tutti i Paesi dell’Alleanza. Il Vice Comandante è britannico ed io, un Italiano, sono il Capo di Stato Maggiore. Sono inoltre presenti Generali tedeschi, francesi, spagnoli, australiani, olandesi e statunitensi, ovviamente. Ai livelli inferiori, la rappresentanza della NATO (e non solo) è estesa. Inoltre, sono anche presenti Ufficiali di collegamento afghani, tramite i quali vengono coordinate tutte le attività operative a supporto dell’Esercito afghano, coinvolto in pieno nelle attività, fin dalla fase di pianificazione".
L'Afghanistan è storicamente un paese quasi impossibile da conquistare. Nel 2001, otto anni fa, gli americani hanno invaso il paese per combattere una guerra globale al terrorismo, in seguito una missione internazionale doveva sconfiggere i talebani e ricostruire un paese democratico. Poi l'Iraq e il conflitto afgano ha perso d'importanza. Oggi si parla ancora della minaccia talebana e sono due i paesi da ricostruire. Qual è il futuro della missione in Afghanistan, quali le reali possibilità e quali gli ostacoli più duri da superare?
"Non c’è dubbio che il futuro dell’Afghanistan dipende da come la politica saprà ricomporre inimicizie che attualmente paiono insanabili. D’altronde, si tratta di un obiettivo difficile da conseguire, se teniamo conto che a 64 anni dalla fine della seconda guerra mondiale anche noi Italiani non siamo riusciti a sanare le ferite che si provocarono vicendevolmente i nostri padri. Questo della pacificazione è un compito che può ricadere solo nelle mani degli afghani. A noi, la funzione di aiutarli, fornendo sicurezza al loro Governo, in modo che espanda la sua autorità ed il suo controllo su tutto il territorio".
da What's Up giugno 2009
(ndr questa intervista è stata rilasciata prima che la situazione in Afghanistan peggiorasse, cosa che sarebbe avvenuta di lì a pochissimo tempo...)
In Afghanistan la guerra va avanti ormai da otto anni e il paese, uno dei più poveri al mondo, sembra non riuscire a ricostruirsi mai. Il governo di Kabul ha difficoltà ad imporre la propria autorità. Il 18 maggio un convoglio che trasportava il fratello del presidente, Ahmadi Wali Karzai, è stato attaccato da un commando armato di lanciagranate e fucili d'assalto uscendone miracolosamente illeso. Gli attentati da parte dei talebani sono spesso rivolti contro le istituzioni o la polizia locale e hanno come vittime principalmente militari e civili afgani . Negli ultimi mesi il fronte della guerra contro i talebani si è spostato a oriente, verso la frontiera del Pakistan. La strada che da Kabul attraversa il Khyber Pass e raggiunge Islamabad, per la quale passano molti dei rifornimenti americani, è diventata molto insicura e tutte le aree tribali del Waziristan e della regione di Swat riversano combattenti talebani in Afghanistan rendendo pericolose le zone di frontiera.
Gli americani si sono di recente affidati ad un nuovo comandante, il Generale Stanley McChrystal, fortemente criticato in passato per le sue responsabilità dirette nell'uso della tortura su prigionieri iracheni (e per la morte di uno di essi) e oggi chiamato da Obama a risolvere il problema dei guerriglieri talebani in Pakistan. Per noi italiani è presente nella regione afgana il Generale di Divisione Marco Bertolini.
In Afghanistan sono presenti circa 2800 militari italiani con il comando nella provincia nord-occidentale di Herat. Quali sono le direttive specifiche della missione militare?
"I militari italiani in Afghanistan si attengono ai compiti conseguenti dalla missione di ISAF, della quale fanno parte. Tale missione, in sintesi, consiste nel supportare il Governo afghano (Govern of Islamic Republic of Afghanistan – GIRoA) nell’affermare il suo controllo e la sua autorità nel Paese. In tale contesto, le operazioni di ISAF si concentrano nel settore della Sicurezza, della Governance e della Ricostruzione e Sviluppo. La Sicurezza rappresenta la condizione indispensabile per poter sviluppare una Governance efficace, in un paese molto articolato e “complesso”, e per poter sviluppare un’altrettanto efficace attività di Ricostruzione e Sviluppo. Per la Sicurezza, le unità di ISAF operano soprattutto a supporto delle unità dell’ANA (Afghan National Army) e dell’ANP (Afghan National Police). A favore di ANA ed ANP è in corso una articolata e complessa attività volta a svilupparne le capacità, al fine di consentire agli Afghani stessi di gestire in prima persona le sfide alla loro sicurezza. Tale attività viene svolta dagli OMLT, unità dell’Esercito Italiano (e degli altri Eserciti), che operano letteralmente all’interno delle unita’ afghane".
Le vittime civili del conflitto salgono sempre più di numero. Facendo una media su tutte le stime disponibili, dal 2001 sono quasi 10mila e solo nel 2008, secondo l'Onu, sono 2118, in gran numero causate dalle forze della Coalizione. In questi giorni è avvenuta la strage di civili più sanguinosa nella storia del conflitto ad opera del contingente americano: si parla di 120/150 morti non combattenti nella provincia di Farah. Come si pongono le forze militari italiane di fronte a queste situazioni?
"La premessa della domanda è imprecisa. ISAF non si sottrae alle sue responsabilità, ma l’80% circa delle vittime civili in Afghanistan sono causate da azioni degli insorti. Pochi hanno notato, ad esempio, che il giorno stesso in cui balzava all’attenzione dei media internazionali la tragedia della Provincia di Farah, conseguente ad un intervento aereo statunitense a supporto di un’unità afghana attaccata durante una normale attività di pattuglia, gli insorti bombardavano con razzi una scuola femminile in una Provincia al confine col Pakistan e, due giorni dopo, un suicida si faceva esplodere in una zona nel sud del Paese causando molte perdite tra la popolazione ed uccidendo 2 soldati britannici.
Per tutti i militari dei vari contingenti, e non solo per i soldati italiani, ogni vittima civile rappresenta motivo di grande dolore, soprattutto quando causata dalle nostre azioni. Non siamo qui, in Afghanistan, per uccidere innocenti e siamo consapevoli che il dolore causato ai parenti ed a tutta la società da questi eventi non può essere cancellato. Al contrario, la sicurezza della popolazione locale è al centro di tutti i nostri sforzi e, se mi permette, di tutti i nostri sacrifici, per cui ogni morte ed ogni ferimento di civili rappresenta una cocente sconfitta per tutti noi. Ma la situazione nel Paese è complessa e bisogna considerare che in tutto il territorio, con particolare riferimento alle province meridionali, si svolge un aspro confronto con entità di insorti agguerrite e ben equipaggiate, che spesso si nascondono tra la popolazione. I nostri soldati frequentemente si astengono dal rispondere ad attacchi proprio per non coinvolgere innocenti, ma questo, ovviamente, non è sempre possibile".
La missione militare italiana in Afghanistan, malgrado abbia scopi di peacekeeping, si trova spesso in situazioni in cui lo scontro a fuoco è inevitabile. Come vengono vissuti dai nostri soldati questi momenti?
"Tecnicamente parlando, non si tratta di una missione di Peace Keeping ma di Peace Enforcing. La differenza tra le due sta nel fatto che nella prima sussiste un accordo di pace tra le parti che forze internazionali devono semplicemente garantire con la loro presenza, mentre nel secondo la pace non è ancora conseguita e deve essere imposta, spesso anche con l’uso delle armi. Quanto ai nostri militari, non è la prima volta che si trovano ad affrontare situazioni del genere (penso, ad esempio, alla Somalia, dove addirittura impiegavamo militari di leva, che non si tiravano indietro).
Se poi Lei vuole sapere come i nostri soldati vivono sotto il profilo emozionale tali evenienze, mi chiede di affrontare aspetti soggettivi difficili da trattare. In ogni caso, per tutti il coinvolgimento emotivo è profondo. Ma i nostri soldati, come quelli degli altri Paesi, sono consapevoli della loro funzione e dei rischi ad essa associati e li affrontano con determinazione".
Recentemente vi siete trovati coinvolti in uno spiacevole incidente in cui ha perso la vita una bambina di 13 anni. Delle regole d'ingaggio se n'è parlato, così come dell'errore dei civili o dei militari, ma, per quanto riguarda la dimensione umana, cosa succede nella popolazione locale quando avvengono eventi del genere? Come percepisce la popolazione locale la presenza di forze armate straniere che possono commettere anche errori molto gravi? Ci sono stati momenti di confronto con la popolazione locale?
"Quello dell’uccisone di una ragazzina di 13 anni di qualche tempo fa ad opera di una nostra unità è un dramma che ha fortemente coinvolto tutto il nostro contingente. Non c’è dubbio che si è trattato di un incidente, ma è anche altrettanto certo che i nostri ragazzi si sono attenuti alle Regole di Ingaggio ed alle procedure in vigore, per affrontare quella che avevano percepito come una minaccia. In merito sono in corso varie inchieste e non voglio aggiungere altro.
Relativamente alla reazione della popolazione, è chiaro che il dolore per i parenti della piccola vittima è inconsolabile, ma da parte delle autorità e del resto della popolazione c’è stata comprensione e non si sono verificati episodi di contestazione nei nostri confronti. Questo anche perché i legami che si sono venuti a creare tra gli Italiani ed i locali sono forti e tutti riconoscono gli sforzi ed i sacrifici che i nostri uomini fanno per assicurare alla popolazione locale le migliori condizioni di vita.
I nostri ragazzi, ovviamente, hanno sofferto profondamente l’accaduto, anche se sanno di non doversi rimproverare nulla. Ma questa consapevolezza, ovviamente, non basta a far dimenticare un episodio che credo segnerà per sempre le loro vite.
Vorrei proporre una riflessione. Se è vero che l’accaduto rappresenta un dramma, è altrettanto vero che sarebbe da considerare un dramma l’atteggiamento di rinuncia che potrebbe essere indotto nei nostri uomini dalla paura di dover sostenere pressioni, da parte dei media e delle autorità, in caso di altre situazioni delicate. A loro, infatti, è richiesto di continuare ad operare nello stesso ambiente pericoloso nel quale si sono svolti quei fatti, e se scegliessero di rinchiudersi nei campi al fine di evitare situazioni dolorose come quella in questione, i primi a rimetterci sarebbero gli Afghani, che verrebbero abbandonati a loro stessi".
Come vive un giovane militare italiano una esperienza professionale così forte, in una zona a rischio e con compiti così rischiosi per la propria vita? Che clima si vive?
"Non ho l’età, purtroppo, per farmi interprete dei giovani soldati di oggi. Ma anch’io sono stato un ragazzo e mi sono trovato come loro ad affrontare analoghe esperienze difficili e coinvolgenti (parlo di Libano nel 1981, di Somalia e di Balcani essenzialmente). Non c’è dubbio che queste esperienze maturano molto sotto il profilo morale. Si è a contatto con popolazioni diverse dalle nostre, che si impara velocemente ad ammirare per la forza con cui fanno fronte a difficoltà che per noi sarebbero inimmaginabili. Si vede e si comprende il mondo per quello che è veramente, senza gli effetti distorsivi innescati da quel filtro poderoso che è la televisione. In altre parole, ci si sprovincializza alla svelta e ci si rende conto di quanto il nostro ricco e spaventatissimo Occidente sia in errore nel trattare con supponenza e con disprezzo chi spesso è migliore di noi, per semplicità, frugalità, disponibilità al sacrificio, senso dell’onore e rispetto per le persone. Si capisce, soprattutto, che se siamo nati nella nella parte ricca del mondo non è certamente per nostro merito".
Negli ultimi mesi, riferendosi al conflitto in questa regione, si parla spesso di Af-Pak, ossia di Afghanistan e Pakistan, con riferimento all'allargamento del fronte verso le province confinanti del Pakistan a causa dell'esodo in quelle aree della popolazione civile e degli attacchi talebani provenienti, appunto, dal Pakistan. Gli americani sono attivamente impegnati sul piano militare. Che ordini ha a riguardo il contingente italiano? Cosa pensate di questo decentramento del conflitto verso oriente?
"Afghanistan e Pakistan sono sicuramente legati da un destino comune. L’instabilità in uno dei due paesi non può che riflettersi in una corrispondente instabilità nell’altro. Di questo, ormai, tutta la Comunità internazionale se ne è accorta ed anche i due paesi si stanno comportando di conseguenza, cooperando sempre più fortemente. In ogni caso, tale situazione non incide sui compiti del contingente italiano, che è inquadrato in ISAF, unicamente finalizzata al supporto del Governo afghano. In altre parole, nessun contingente di ISAF è coinvolto con operazioni di alcun genere in Pakistan".
Spesso si ha l'impressione che qualsiasi azione militare americana sia innegabile e giustificata, mentre gli altri contingenti devono inevitabilmente avere il consenso statunitense per muoversi. Oltretutto il presidente afgano Karzai è stato spesso definito “sindaco di Kabul” per sottolineare la sua poca autorità fuori dalla capitale. Com'è il rapporto tra il comando militare italiano e le autorità afgane? Fate riferimento a loro per parlare e decidere interventi militari, o il vostro interlocutore rimangono i vertici militari dell'Isaf guidati dagli americani? L'attacco americano alle province pakistane è stato pianificato con il comando internazionale?
"Il Comandante di ISAF è americano, ma il Comando in se è NATO, vale a dire composto da Ufficiali di tutti i Paesi dell’Alleanza. Il Vice Comandante è britannico ed io, un Italiano, sono il Capo di Stato Maggiore. Sono inoltre presenti Generali tedeschi, francesi, spagnoli, australiani, olandesi e statunitensi, ovviamente. Ai livelli inferiori, la rappresentanza della NATO (e non solo) è estesa. Inoltre, sono anche presenti Ufficiali di collegamento afghani, tramite i quali vengono coordinate tutte le attività operative a supporto dell’Esercito afghano, coinvolto in pieno nelle attività, fin dalla fase di pianificazione".
L'Afghanistan è storicamente un paese quasi impossibile da conquistare. Nel 2001, otto anni fa, gli americani hanno invaso il paese per combattere una guerra globale al terrorismo, in seguito una missione internazionale doveva sconfiggere i talebani e ricostruire un paese democratico. Poi l'Iraq e il conflitto afgano ha perso d'importanza. Oggi si parla ancora della minaccia talebana e sono due i paesi da ricostruire. Qual è il futuro della missione in Afghanistan, quali le reali possibilità e quali gli ostacoli più duri da superare?
"Non c’è dubbio che il futuro dell’Afghanistan dipende da come la politica saprà ricomporre inimicizie che attualmente paiono insanabili. D’altronde, si tratta di un obiettivo difficile da conseguire, se teniamo conto che a 64 anni dalla fine della seconda guerra mondiale anche noi Italiani non siamo riusciti a sanare le ferite che si provocarono vicendevolmente i nostri padri. Questo della pacificazione è un compito che può ricadere solo nelle mani degli afghani. A noi, la funzione di aiutarli, fornendo sicurezza al loro Governo, in modo che espanda la sua autorità ed il suo controllo su tutto il territorio".
Nessun commento:
Posta un commento