mercoledì 8 aprile 2009

Le meraviglie della tv italiana

Questi due video tratti da Youtube mi hanno fatto pensare molto... o meglio, mi hanno fatto ripensare molto alla televisione italiana.
L'ideale è guardarli nella sequenza in cui li carico, cosicchè ci si possa rendere conto di cos'è la televisione di informazione in Italia e poi del perchè è così.
Buona visione.



Il secondo è solo la prima parte di questo interessante documentario americano di cui, ovviamente, non si è mai parlato in Italia. Su Youtube lo trovate suddiviso in cinque parti. Vi consiglio di guardarvelo: niente di nuovo, ma detto in maniera decisamente corretta.

Air Cia: tra rapimenti e traffico di coca il servizio è extra lusso

Dal Medio Oriente all’America Latina, dalle antiche bellezze della vecchia Europa alle spiagge bianche del nuovo mondo, la Cia sembra essere davvero ovunque. Almeno così risulta leggendo i tabulati di volo dei suoi jet business class.


da What's Up di marzo 2009

Da un curioso incidente avvenuto in Messico, dove un jet Gulfstream marcato N987SA guidato da tre americani è precipitato nella penisola dello Yucatan rivelando un carico piuttosto illegale (più di tre tonnellate di cocaina), è emerso che il velivolo aveva sorvolato più volte i cieli di Francia, Gran Bretagna e Irlanda, per poi dedicarsi a rotte più esotiche, come Stati Uniti – Cuba, per la precisione Guantanamo. Questo jet risulterà poi indicato nella lista che il Consiglio d’Europa ha valutato all’interno dell’indagine sulle operazioni di “extraordinary rendition”, ossia di rapimento e detenzione illegale, che la Cia ha effettuato nei confronti di cittadini con sospetti legami terroristici. I cittadini, nel caso delle indagini europee quelli comunitari, erano letteralmente rapiti e deportati in prigioni segrete che la Cia gestirebbe in paesi fuori dalle severe leggi dell’UE, ad esempio il Marocco. Come successe nel caso dell’imam milanese Abu Omar, le vittime di questi sequestri vengono portate in piccoli aeroporti per essere poi trasferite con piccoli jet privati in ancor più piccole celle di prigione. Per Abu Omar la Cia usò la base di Aviano e un Learjet 95, molto simile al Gulfstream di cui sopra, con cui l’imam fu trasferito in una remota località egiziana. Gli agenti segreti, evidentemente, non amano né essere visti, né, tantomeno, viaggiare scomodi e, se un aereo piccolo da meno nell’occhio, un jet business class consente una notevole comodità fatta di sedili in pelle, ampio spazio per le gambe e minibar per tutti, anche per il deportato. Per le valigette piene di cocaina, giustamente, si potrebbe obiettare che la comodità possa essere superflua e diminuita a vantaggio della capienza, ma non per niente è saltato fuori che la Cia teneva sul libro paga anche un vecchio Dc9 Mc Donnell Douglas di 45 metri per 55 mila chilogrammi di carico utile. Due piloti ne abbandonarono uno nel 2006, sempre in Messico, dopo un atterraggio di fortuna. Al suo interno furono trovate 5 tonnellate di polvere bianca. Così, tra voli di classe e di trasporto merci le operazioni dei servizi segreti potrebbe rivelare un numero notevole di intrighi “aerei”, ma su tutto ciò continua ad essere steso un velo di silenzio. Oltre ai già ben noti privilegi di cui gode l’Agency più famosa del mondo, è recente la notizia che anche Barack Obama, presentatosi come un innovatore rispetto al regime di segretezza della precedente amministrazione Bush, non ha voluto rinunciare la segreto di Stato sulle “extraordinary rendition”, anche se, ha assicurato, i prigionieri non subiranno più torture. Quantomeno.


domenica 8 marzo 2009

Carta 08: i cinesi chiedono quello che la Cina non dà

da Confonrto.it

Nel 1977 in Cecoslovacchia apparve un manifesto chiamato Carta 77. Circa 250 personalità artistiche, politiche, filosofiche criticavano il governo e chiedevano un maggior rispetto dei diritti umani. Lo scrittore materiale della carta Vaclav Havel (nel 1989 eletto Presidente), fu arrestato e scontò cinque anni di carcere. In seguito quella protesta, seppur marginale, contribuì al passaggio della Cecoslovacchia da regime comunista a stato democratico. A sessant’anni dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Washington, 1948) in Cina un gruppo di 303 persone ha firmato la Carta 08, che, rendendo omaggio al documento cecoslovacco, critica l’attuale politica cinese e chiede maggiori diritti umani in un Paese tristemente noto per il suo record di esecuzioni annuali.


A differenza degli anni ’70 nella Cina odierna a vantaggio dei promotori della Carta 08 c’è un mezzo d’informazione che, grazie alla sua delocalizzazione fisica, può rivelarsi molto dannoso per una regime come quello del Presidente Hu Jintao: internet. Nel giro di pochi mesi il documento ha viaggiato per blog e forum, spesso chiusi o osteggiati dal governo, ed ha aggiunto circa 8.000 firme, poca cosa rispetto al miliardo e 300 mila cittadini cinesi complessivi, ma da non sottovalutare per la composizione dei firmatari. I nomi sul documento, infatti, sono quelli di intellettuali, imprenditori, semplici cittadini e contadini, perfino alcuni funzionari governativi. Tra tutti spicca quello di Liu Xiaobo, celebre attivista per i diritti umani che, come i promotori della Carta 77, è stato arrestato (e non è stato l’unico), ma, stavolta, con un tempismo sorprendente. Due giorni prima del sessantesimo anniversario della Dichiarazione dei diritti umani, l’attivista è stato prelevato dalla polizia e rinchiuso in una località segreta con l’accusa di “cospirazione sovversiva contro la sicurezza dello Stato”. Ma cosa chiedono questi cittadini cinesi ai loro governanti per giustificare una reazione così negativa a questa iniziativa?

I firmatari denunciano l’assenza di diritti umani negati dallo Stato stesso e sostengono che “il governo esiste per la protezione dei diritti umani dei suoi cittadini” e proseguono ribadendo un concetto fondamentale di tutte le democrazie occidentali: “l’esercizio del potere dello Stato deve essere autorizzato dal popolo”. E non solo questo: la separazione dei poteri, la separazione fra Stato e religione, garanzia della proprietà privata e federalismo, sono gli altri punti fondamentali della Carta 08. Tutte critiche che di fronte a una qualsiasi classe governante occidentale potrebbero suonare giustificate, ma, purtroppo per loro, in Cina non c’è la democrazia e i governanti chiedono ai governati degli immensi sacrifici economici in nome di una ragion di Stato che, fin’ora, ha garantito uno sviluppo senza eguali e una ricchezza monumentale, accumulata nelle casse della banca nazionale. La recente crisi economica ha però incrinato notevolmente la fiducia dei cittadini in un patto sociale già palesemente unilaterale. La ricchezza accumulata non solo rimane nelle casse dello Stato senza venir distribuita, ma, per stessa ammissione del governo, sta subendo dei pesantissimi ridimensionamenti a causa di quella crisi globale che ha colpito anche l’intoccabile economia cinese e ha già portato al licenziamento di oltre dieci milioni di lavoratori. La classe media, quella istruita, quella con i computer e quella sul consenso della quale si basava il patto sociale che dà fiducia al partito unico cinese, ha cominciato a dubitare e ha chiedersi se non sia meglio reagire. Nella Carta 08 non si presenta una nuova proposta di governo, non si annuncia la nascita di un nuovo partito e non si professano azioni violente per sovvertire l’ordine costituito. In questo documento i cittadini chiedono ai loro governanti di prendere coscienza della loro esistenza anche come esseri umani e di tenerli in considerazione nella gestione del potere. Se da una parte ottomila firme non sono nulla sul totale dei cinesi, il fatto che siano state merito della diffusione via internet garantisce la possibilità di raggiungere, anche se con fatica, quasi tutti i possessori di computer.

Nel 1977 Vaclav Havel fu arrestato e dodici anni dopo diventò Presidente. Chissà che anche Liu Xiaobo, oggi, non possa incidere con la sua opera sulla vita di tanti cinesi. Sempre che esca vivo dal carcere.

sabato 21 febbraio 2009

La filosofia non va capita, va giocata

Si ricomincia

A causa di esami universitari e congiunture astrali poco favorevoli, direbbero i più superstiziosi, non ho potuto aggiornare il blog con la frequenza che avrei voluto. Ora, liberatomi dalle incombenze doverose degli studi e dagli influssi maligni di Plutone in Scorpione, il mio ascendente Vergine mi consente di avere forse più tempo per mantenere un certo ritmo di aggiornamento del blog.
A voi tutti: buone stelle.

mercoledì 21 gennaio 2009

L'era della consapevolezza

“Oggi siamo chiamati ad una nuova era di responsabilità, la consapevolezza, da parte di ciascun americano, che abbiamo doveri verso noi stessi, la nazione e il mondo, doveri che non accettiamo controvoglia, ma che accogliamo con gioia, nella certezza che non esiste cosa più grata allo spirito, né più temprante per il nostro carattere, che impegnarci a fondo per risolvere un compito arduo”.


Barack Obama, 44° Presidente degli Stati Uniti, ha celebrato ieri con un lungo discorso (da Youtube) il suo insediamento alla Casa Bianca. Gli ultimi otto anni alle spalle e il brillante sole dell’avvenire che spicca sulla bandiera a stelle e strisce sono il riassunto migliore del discorso con cui Obama ha richiamato all’opera il popolo americano, consapevole della profonda crisi economica, ma anche d’identità, che sta attraversando il suo paese.

“Ma io ti dico, America: le affronteremo”. Così infonde fiducia il Presidente, perché, nonostante non abbia lesinato le cordialità di protocollo nei confronti del suo predecessore George W. Bush, Obama ha rimarcato gli aspetti peggiori degli ultimi anni americani. Una “economia indebolita, per colpa dell’avidità e dell’irresponsabilità di alcuni” e la tendenza a “proteggere interessi gretti e rimandare decisioni sgradevoli” sono una perfetta sintesi critica delle principali attività (o meglio: inattività) della governance repubblicana. Allora cosa dobbiamo fare per invertire la rotta, chiedono a gran voce gli americani e non solo. “A cominciare da oggi, dobbiamo risollevarci, rispolverarci, e rimetterci all’opera, per rifare l’America”. Obama sa cosa rispondere a questa domanda, ma è lecito chiedersi: per rifare quale America?

In una situazione molto simile a quella odierna si trovò Franklin Delano Roosevelt. Con il suo New Deal l’America sembrò rinascere dalle ceneri del colossale crack borsistico del ‘29 e, da lì ad una decina d’anni, il paese avrebbe dominato il mondo in seguito alla seconda guerra mondiale. L’America arrivò dove nessuna nazione o stato o dittatore o imperatore era mai arrivato: da qualsiasi sua decisione dipendeva il futuro dell’intero pianeta. Con la bomba nucleare stabilì un primato militare, con il piano Marshall quello economico e con i film di Hollywood infuse nel mondo intero la sensazione che gli Stati Uniti fossero realmente i portatori di quel primato ideologico di democrazia e libertà che ha fino ad oggi segnato qualsivoglia politica estera americana.

Da una firma di Roosevelt era nata la nazione più potente del mondo e, ancora oggi, nonostante tutto il tempo passato, Obama dichiara al suo discorso d’insediamento: “Restiamo la nazione più ricca e potente della terra”. Ma, con questa consapevolezza, Obama sembra voler richiamare ai valori fondamentali della costituzione proprio gli americani stessi. “La promessa divina che tutti gli uomini sono creati uguali, e liberi, e che tutti hanno diritto a realizzare pienamente la loro felicità”, sottolinea il Presidente, è uno dei concetti su cui si è basata la lotta dei rivoluzionari americani e dei padri fondatori per creare gli Stati Uniti. Liberté, fraternité, egalité, riassumeva in altri termini la carta firmata da George Washington il 17 settembre 1787 a Philadelphia.

Ma come la Rivoluzione Francese si è risolta nella dittatura del Terrore ed un soldato corso ne ha fatto di ciò che restava un impero personale, così l’America, con una gestazione più lunga, ha generato il Terrore del conflitto nucleare e l’impero personale delle multinazionali e della finanza liberale e creativa che ha portato alla crisi economica che ha messo in ginocchio il mondo intero.

Proprio oggi che siamo giunti all’apice di questo ricorso storico, si presenta ad Obama un’occasione unica. Il Presidente ha sottolineato come l’America sia “una nazione di cristiani e musulmani, ebrei e indù e anche di non credenti”. Speriamo si renda conto che oggi l’America non è più solo degli americani, di qualsivoglia razza o religione essi siano, ma che, proprio per la posizione in cui si è voluta collocare rispetto al mondo intero, essa appartiene a tutti popoli della Terra.

Obama ha citato una frase con cui Washington, allora generale dell’esercito rivoluzionario, arringò il popolo americano prima della battaglia di Trenton, una delle più significative per l’indipendenza. “Che il mondo futuro sappia…che nel cuore dell’inverno, quando nulla più sopravviveva, se non la speranza e il valore…la città e la campagna, allertate del comune pericolo, si fecero avanti per affrontarlo”.

Ebbene, Presidente Obama, che il mondo futuro sappia che nel cuore dell’inverno, quando nulla più sopravviveva, se non la speranza e il valore, l’Occidente e l’Oriente, allertati dal comune pericolo, si fecero avanti per affrontarlo.

Chissà che l’uomo a capo della nazione più potente del mondo non possa veramente fare qualcosa del genere?! Da oggi non si tratta più di Yes we can. Oggi diventa Can you do it?


giovedì 8 gennaio 2009

Tra statue e champagne

La dolce vita di un premier asiatico

«Andate tutti in vacanza in Kazakhstan: lì c'è un signore che è mio amico, non a caso ha il 91% dei voti e ha fatto cose straordinarie». Così il nostro premier Silvio Berlusconi, di passaggio ad Astana, ha commentato lo stato del paese governato da Nursultan Nazarbajev. Ex Primo Segretario del Partito Comunista kazako, Nazarbajev è alla guida del Kazakhstan dal 1991, due anni dopo l’indipendenza del suo Paese dall’Unione Sovietica. Il suo mandato viene prolungato da un referendum nel 1995 ed è rieletto democraticamente, anche se con molti dubbi da parte dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa), nel 1999 e nel 2005. Poco dopo la sua prima elezione Nazarbajev, volendo seguire le orme del suo modello politico Ataturk, spostò la capitale del Kazakhstan da Almaty a Aqmola, poi ribattezzata Astana, che in kazako significa per l’appunto “Capitale”, ed investì nella città ingenti somme di denaro per costruire infrastrutture, monumenti ed autocelebranti palazzi del potere, in quella che, fino a una decina di anni fa era solo una piccola città sperduta in mezzo alla steppa e che ora si manifesta come una scintillante metropoli. Che Berlusconi trovi affinità tra lui e Nazarbajev è dovuto, probabilmente, al fatto che entrambi hanno una visione molto personalistica del potere, anche se in Kazakhstan esplicitarla è forse più semplice che in Italia. Il presidente kazako, infatti, oltre ad aver elevato la sua persona la figura cardine della vita politica, tanto da erigere numerose statue di sé stesso ed aver reso reato le critiche al suo operato da parte dei giornali (preoccupazione peraltro inutile, visto che la stampa è in mano a sua figlia), ha provveduto alla privatizzazione di quasi tutte le aziende statali (comunicazione, industria, energia), affidandole ad una stretta cerchia di oligarchi, spesso aventi legami familiari con i Nazarbajev.



Se Borat, l’irriverente giornalista kazako, descrivendo il suo paese come un posto di pecorari e ignoranti dediti a particolari pratiche sessuali, ha fatto più pubblicità al Kazakhstan di chiunque altro, Nursultan Nazarbajev ha scelto un’altra via. Come Ataturk, che voleva la grandezza di una Turchia laica, anche il premier kazako non perde occasione per dar sfoggio della ricchezza del suo Paese, grande produttore di ferro, carbone, metano e con una produzione di oltre 200mila barili di petrolio al giorno. In questi momenti di profonda crisi economica, nell’enorme Stato asiatico si registra un aumento del 1330 per cento sull’importazione di Champagne e si pensa ad un accordo tra Mastercard e la seconda banca del Paese per rilasciare una carta di credito bordata d’oro e con un diamante incastonato sopra la scadenza, che avrà un tetto di spesa di 50 mila dollari. Così, per gli acquisti dei saldi. In più pare che Nazarbajev abbia acquistato, per la modica cifra di 60 milioni di euro, Toprak Mansion, una villetta londinese situata in Bishop’s Avenue, la “via dei miliardari” e considerate tra le dieci abitazioni più costose al mondo. «Ho visto un'enorme diga a forma di fiore, bastava premere un tasto per illuminare tutta una città. Ho pensato di fare la stessa cosa in Sardegna». Insomma, se Berlusconi ha deciso di prendere spunto dal suo amico Nursultan Nazarbajev, un po’ per invidia forse, deve comunque ricordarsi che noi vantiamo, alla faccia sua, un grande cantautore del quale pare essere fan il presidente kazako: Toto Cotugno.