sabato 30 gennaio 2010

Da Washington a Ottawa: fuggendo dalla guerra

Centinaia di ex soldati americani hanno chiesto asilo al Canada per non combattere in Iraq

da What's Up di ottobre 2009
scritto in collaborazione con Gabriella Tesoro
C’era un tempo in cui emigrare in America era considerato il sogno di tutti. Ora quel sogno è svanito e si è trasformato nell’incubo di essere un cittadino americano, o peggio ancora, un soldato americano.
Oggi quasi 220 ex militari statunitensi raccontano dal Canada le loro incredibili esperienze. Vengono chiamati “War Resisters” ossia “Resistenti alla guerra” e Toronto si è guadagnata l’epiteto di “Resisterville”, perché la maggior parte di loro è concentrato qui, sul lato canadese del lago Ontario. Molti ancora non si sono rivelati per quello che sono, ossia dei fuggitivi o profughi di una guerra, quella in Iraq, nella quale non credono, ma non sono pochi quelli che hanno chiesto ufficialmente al Canada la cittadinanza. Da Ottawa il premier Stephen Harper, conservatore e grande amico di Washington, ha risposto negativamente ad ogni richiesta, anche se gran parte della popolazione canadese sembra essere favorevole. Chi non ha intenzione di prendere posizione riguardo questa vicenda sono, invece, i giudici di Toronto che rimandano la questione ad una dimensione non legale, ma bensì politica, riguardante le relazioni tra il Canada e gli Stati Uniti. La questione tra i due Paesi va avanti sin dagli anni ’70 quando, per evitare la guerra in Vietnam, fuggirono a nord circa 55mila soldati americani. All’epoca si poteva parlare di diserzione perché la leva era obbligatoria. Oggi negli USA ci si arruola volontariamente e in molti hanno ascoltato la chiamata alle armi da parte di George W. Bush in seguito all’11 settembre. La maggior parte di coloro che sono scappati in Canada sono reduci della prima ondata d’invasione dell’Iraq, rimandati a casa e poi richiamati di nuovo quando le cose non stavano andavano per il verso giusto. Coloro che avevano visto cos’era la guerra in Iraq rimanendone scioccati hanno preferito, come i loro padri negli anni ’70, scappare a nord, anche rischiando di andare in contro alla severissima Corte marziale americana. Perfino Obama che ha definito quella in Iraq una “dumb war” (guerra stupida) non può fare nulla per evitare che questi disertori/obiettori di coscienza/profughi di guerra vadano incontro a questo giudizio che, nel peggiore dei casi, può significare anche due anni di galera.
Un’altra grande barriera che i War Resisters devono superare si chiama Jason Kennedy, il Ministro dell’Immigrazione canadese. Da sempre convinto che gli ex soldati non siano “autentici profughi o rifugiati politici, come intendono far credere” e “non subiscono affatto persecuzioni nei loro Paesi”, ha fatto bocciare, nell’ultimo anno, due proposte dell’opposizione che congelavano l’ordine d’espulsione inflitto ai resistenti. Il primo a pagarne le conseguenze è stato Robin Long. Il giovane 25enne viveva in Canada da tre anni; arrestato il 15 luglio 2008 con l’accusa di diserzione, è stato estradato negli Stati Uniti, dove il tribunale militare lo ha condannato a 15 mesi di detenzione in isolamento. Tuttavia la vicenda più celebre rimane quella di Joshua Key. Come egli stesso ha scritto nel suo libro “The Deserter’s Tale” (Racconto del disertore), la sua storia è simile a quella di migliaia giovani soldati americani: si arruola nell’esercito dopo l’11 settembre e nel 2003 viene spedito a Baghdad perché “Saddam Hussein era un mostro che andava tolto di mezzo e bisognava privarlo delle armi di distruzione di massa che erano nelle sue mani” scrive Key nel suo libro “Ma erano tutte balle. Non è stato trovato niente”. Key racconta di aver commesso in Iraq, assieme al suo plotone, reati che vanno dalla rapina a mano armata all’omicidio e descrive episodi orribili come quando vide per strada una serie di corpi decapitati e due soldati che prendevano a calci una testa come fosse un pallone. Key spiega che la propaganda militare americana chiama gli iracheni “sand nigger” (negri di sabbia) e che “loro non sono uomini” dal momento che “tutti i musulmani sono terroristi e tutti i terroristi sono musulmani” ribadendo che l’unico obiettivo è eliminarli. Infine conclude: “Ho perso il mio Paese e il mio Paese ha perso me. Potrei rivedere questa posizione solo nel caso in cui gli Stati Uniti mandassero sotto processo l’ex presidente Bush e tutti gli ufficiali responsabili di aver mandato il nostro esercito in Iraq”.
Che la guerra combattuta dal loro Paese sia giusta, ingiusta o stupida, come ammette lo stesso Obama, comunque queste persone si sentono tradite e, di sicuro, negli Stati Uniti non vogliono tornarci mai più.

martedì 26 gennaio 2010

In Africa si paga per non guarire

Farmaci falsi, inefficaci, scaduti fanno la gioia di commercianti di veleno e cinici speculatori. Il tutto sullo sfondo degli interessi e delle ripicche di chi dovrebbe vigilare

da What's Up di luglio 2009
Recentemente un carico di farmaci anti-malarici è approdato in Nigeria. Sulle etichette era scritto “made in India”, ma le autorità sanitarie nigeriane hanno fatto sapere che i prodotti erano in realtà cinesi. L'incidente ha causato forti proteste da parte di New Delhi il cui governo ha richiesto esplicitamente le scuse ufficiali di Pechino. Il problema è stato presentato sia sotto l'aspetto umanitario sia, anzi soprattutto, per quello economico. Cina e India sono in lotta aperta da molto tempo per quella fetta del commercio africano dei medicinali che nasconde, dietro l'apparente velo dell'aiuto umanitario, interessi geopolitici ed economici non da poco. Entrambe le nazioni, infatti, sono in cerca di una consistente apertura dei rapporti commerciali con il continente nero e lo smercio di medicinali presso quei Paesi, come la Nigeria, ricchi di materie prime fondamentali, giova moltissimo agli accordi economici. Il confronto si basa sul fatto che i medicinali indiani e cinesi vengono smerciati nel continente a prezzi inferiori rispetto a quelli delle multinazionali occidentali, le quali, di par loro, non perdono occasione per sottolineare come quei prodotti non seguano le norme dell'Organizzazione mondiale della sanità. L'Oms, infatti, rende noto che, secondo uno studio, quasi il 60% dei medicinali che approdano nel continente nero sono inutili, inefficaci o addirittura scaduti e più del 30% risultano contraffatti. Proprio dalle industrie di alcune case farmaceutiche escono prodotti al risparmio con conseguenze ovvie sulla loro efficacia e non sono in pochi i medici volontari in Africa che raccontano di situazioni in cui si devono accontentare anche dei farmaci di dubbia provenienza non potendo avere di meglio. Del resto è normale che in una zona del mondo dove i controlli sono scarsissimi, se non nulli, il mercato dei farmaci falsi trovi libertà d'azione e la Cina risulta esserne la maggior produttrice. Dalle fabbriche cinesi spesso escono prodotti con principi attivi non adatti all'impiego o addirittura inesistenti, altri presentano semplici misture di acqua, farina e zucchero e non sono rari i casi in cui sono stati rilevati agenti tossici. A Pechino stanno tentando di tenere sotto controllo questo mercato illecito. Nel 2007 ben tre ufficiali del Dipartimento per la registrazione dei farmaci sono stati incriminati per corruzione da parte di aziende farmaceutiche che cercavano una veloce approvazione dei loro prodotti. Nonostante ciò l'amministrazione cinese fatica a controllare il fenomeno.
È facilmente comprensibile, dunque, la rabbia degli indiani nell'apprendere che medicinali di chiara provenienza illecita siano finiti sul mercato africano con la dicitura “made in India” e il risentimento monta ancor di più nel momento in cui a New Delhi scoprono che provengono proprio dalla Cina, loro principale avversario commerciale in quella regione. Sul sito dell'Ufficio Stampa governativo indiano è stato pubblicato un comunicato che attacca velatamente, ma con parole chiare, Pechino. “L'Alto Commissariato Indiano in Nigeria – si legge – ha indicato che la consegna contenente pasticche di Maloxina e Amalar impiegate nel trattamento della Malaria era valutato 32,1 milioni di Naira (moneta nigeriana, circa 155mila euro) e sono state prodotte, confezionate e spedite via mare dalla Cina”. Nel comunicato il governo indiano ribadisce la sua preoccupazione perché Pechino offra maggior attenzione nei confronti del problema e prenda provvedimenti nei confronti di chi “malign” (diffama) il nome dell'India in questo settore. La nota si conclude ribadendo la posizione di New Delhi sulla questione del commercio dei farmaci: “L'India ha acquisito una forte posizione come produttore ed esportatore di generi medicinali economici i quali hanno capacità curative pari alle loro alternative brevettate – il riferimento è alle multinazionali – ma con costi molto più ragionevoli. I medicinali generici servono a curare le persone povere che non possono permettersi i farmaci brevettati e di marca, estremamente cari, delle multinazionali appartenenti in maggioranza a Paesi sviluppati”.
Non sarà comunque un episodio come questo a migliorare la qualità complessiva dei medicinali commercializzati in Africa. La mancanza quasi totale di controlli e la disperazione della popolazione, infatti, sono il più florido terreno per chi disprezza totalmente la vita in favore del denaro facile.

venerdì 22 gennaio 2010

U.F.O. (U-ntercepted Fabulous Object)

Chronicles of a Soviet Capitalist
Segnalato da Gianmarco Volpe e letto su Internazionale del 18/24 dicembre 2009.
Purtroppo ho trovato solo il link per l'articolo originale che Irakli Iosebashvili ha scritto per la rivista americana Guernica.

E se scoppiasse un'altra guerra in Medio Oriente?
Articolo di Robert Fisk dal sito di Internazionale

Afghanistan 2009: dopo otto anni di guerra c'è un paese da ricostruire

Il conflitto si è allargato in Pakistan e i talebani continuano ad essere un nemico difficilissimo da affrontare

da What's Up giugno 2009
(ndr questa intervista è stata rilasciata prima che la situazione in Afghanistan peggiorasse, cosa che sarebbe avvenuta di lì a pochissimo tempo...)

In Afghanistan la guerra va avanti ormai da otto anni e il paese, uno dei più poveri al mondo, sembra non riuscire a ricostruirsi mai. Il governo di Kabul ha difficoltà ad imporre la propria autorità. Il 18 maggio un convoglio che trasportava il fratello del presidente, Ahmadi Wali Karzai, è stato attaccato da un commando armato di lanciagranate e fucili d'assalto uscendone miracolosamente illeso. Gli attentati da parte dei talebani sono spesso rivolti contro le istituzioni o la polizia locale e hanno come vittime principalmente militari e civili afgani . Negli ultimi mesi il fronte della guerra contro i talebani si è spostato a oriente, verso la frontiera del Pakistan. La strada che da Kabul attraversa il Khyber Pass e raggiunge Islamabad, per la quale passano molti dei rifornimenti americani, è diventata molto insicura e tutte le aree tribali del Waziristan e della regione di Swat riversano combattenti talebani in Afghanistan rendendo pericolose le zone di frontiera.
Gli americani si sono di recente affidati ad un nuovo comandante, il Generale Stanley McChrystal, fortemente criticato in passato per le sue responsabilità dirette nell'uso della tortura su prigionieri iracheni (e per la morte di uno di essi) e oggi chiamato da Obama a risolvere il problema dei guerriglieri talebani in Pakistan. Per noi italiani è presente nella regione afgana il Generale di Divisione Marco Bertolini.

In Afghanistan sono presenti circa 2800 militari italiani con il comando nella provincia nord-occidentale di Herat. Quali sono le direttive specifiche della missione militare?

"I militari italiani in Afghanistan si attengono ai compiti conseguenti dalla missione di ISAF, della quale fanno parte. Tale missione, in sintesi, consiste nel supportare il Governo afghano (Govern of Islamic Republic of Afghanistan – GIRoA) nell’affermare il suo controllo e la sua autorità nel Paese. In tale contesto, le operazioni di ISAF si concentrano nel settore della Sicurezza, della Governance e della Ricostruzione e Sviluppo. La Sicurezza rappresenta la condizione indispensabile per poter sviluppare una Governance efficace, in un paese molto articolato e “complesso”, e per poter sviluppare un’altrettanto efficace attività di Ricostruzione e Sviluppo. Per la Sicurezza, le unità di ISAF operano soprattutto a supporto delle unità dell’ANA (Afghan National Army) e dell’ANP (Afghan National Police). A favore di ANA ed ANP è in corso una articolata e complessa attività volta a svilupparne le capacità, al fine di consentire agli Afghani stessi di gestire in prima persona le sfide alla loro sicurezza. Tale attività viene svolta dagli OMLT, unità dell’Esercito Italiano (e degli altri Eserciti), che operano letteralmente all’interno delle unita’ afghane
".

Le vittime civili del conflitto salgono sempre più di numero. Facendo una media su tutte le stime disponibili, dal 2001 sono quasi 10mila e solo nel 2008, secondo l'Onu, sono 2118, in gran numero causate dalle forze della Coalizione. In questi giorni è avvenuta la strage di civili più sanguinosa nella storia del conflitto ad opera del contingente americano: si parla di 120/150 morti non combattenti nella provincia di Farah. Come si pongono le forze militari italiane di fronte a queste situazioni?

"La premessa della domanda è imprecisa. ISAF non si sottrae alle sue responsabilità, ma l’80% circa delle vittime civili in Afghanistan sono causate da azioni degli insorti. Pochi hanno notato, ad esempio, che il giorno stesso in cui balzava all’attenzione dei media internazionali la tragedia della Provincia di Farah, conseguente ad un intervento aereo statunitense a supporto di un’unità afghana attaccata durante una normale attività di pattuglia, gli insorti bombardavano con razzi una scuola femminile in una Provincia al confine col Pakistan e, due giorni dopo, un suicida si faceva esplodere in una zona nel sud del Paese causando molte perdite tra la popolazione ed uccidendo 2 soldati britannici.
Per tutti i militari dei vari contingenti, e non solo per i soldati italiani, ogni vittima civile rappresenta motivo di grande dolore, soprattutto quando causata dalle nostre azioni. Non siamo qui, in Afghanistan, per uccidere innocenti e siamo consapevoli che il dolore causato ai parenti ed a tutta la società da questi eventi non può essere cancellato. Al contrario, la sicurezza della popolazione locale è al centro di tutti i nostri sforzi e, se mi permette, di tutti i nostri sacrifici, per cui ogni morte ed ogni ferimento di civili rappresenta una cocente sconfitta per tutti noi. Ma la situazione nel Paese è complessa e bisogna considerare che in tutto il territorio, con particolare riferimento alle province meridionali, si svolge un aspro confronto con entità di insorti agguerrite e ben equipaggiate, che spesso si nascondono tra la popolazione. I nostri soldati frequentemente si astengono dal rispondere ad attacchi proprio per non coinvolgere innocenti, ma questo, ovviamente, non è sempre possibile".

La missione militare italiana in Afghanistan, malgrado abbia scopi di peacekeeping, si trova spesso in situazioni in cui lo scontro a fuoco è inevitabile. Come vengono vissuti dai nostri soldati questi momenti?

"Tecnicamente parlando, non si tratta di una missione di Peace Keeping ma di Peace Enforcing. La differenza tra le due sta nel fatto che nella prima sussiste un accordo di pace tra le parti che forze internazionali devono semplicemente garantire con la loro presenza, mentre nel secondo la pace non è ancora conseguita e deve essere imposta, spesso anche con l’uso delle armi. Quanto ai nostri militari, non è la prima volta che si trovano ad affrontare situazioni del genere (penso, ad esempio, alla Somalia, dove addirittura impiegavamo militari di leva, che non si tiravano indietro).
Se poi Lei vuole sapere come i nostri soldati vivono sotto il profilo emozionale tali evenienze, mi chiede di affrontare aspetti soggettivi difficili da trattare. In ogni caso, per tutti il coinvolgimento emotivo è profondo. Ma i nostri soldati, come quelli degli altri Paesi, sono consapevoli della loro funzione e dei rischi ad essa associati e li affrontano con determinazione".

Recentemente vi siete trovati coinvolti in uno spiacevole incidente in cui ha perso la vita una bambina di 13 anni. Delle regole d'ingaggio se n'è parlato, così come dell'errore dei civili o dei militari, ma, per quanto riguarda la dimensione umana, cosa succede nella popolazione locale quando avvengono eventi del genere? Come percepisce la popolazione locale la presenza di forze armate straniere che possono commettere anche errori molto gravi? Ci sono stati momenti di confronto con la popolazione locale?

"Quello dell’uccisone di una ragazzina di 13 anni di qualche tempo fa ad opera di una nostra unità è un dramma che ha fortemente coinvolto tutto il nostro contingente. Non c’è dubbio che si è trattato di un incidente, ma è anche altrettanto certo che i nostri ragazzi si sono attenuti alle Regole di Ingaggio ed alle procedure in vigore, per affrontare quella che avevano percepito come una minaccia. In merito sono in corso varie inchieste e non voglio aggiungere altro.
Relativamente alla reazione della popolazione, è chiaro che il dolore per i parenti della piccola vittima è inconsolabile, ma da parte delle autorità e del resto della popolazione c’è stata comprensione e non si sono verificati episodi di contestazione nei nostri confronti. Questo anche perché i legami che si sono venuti a creare tra gli Italiani ed i locali sono forti e tutti riconoscono gli sforzi ed i sacrifici che i nostri uomini fanno per assicurare alla popolazione locale le migliori condizioni di vita.
I nostri ragazzi, ovviamente, hanno sofferto profondamente l’accaduto, anche se sanno di non doversi rimproverare nulla. Ma questa consapevolezza, ovviamente, non basta a far dimenticare un episodio che credo segnerà per sempre le loro vite.
Vorrei proporre una riflessione. Se è vero che l’accaduto rappresenta un dramma, è altrettanto vero che sarebbe da considerare un dramma l’atteggiamento di rinuncia che potrebbe essere indotto nei nostri uomini dalla paura di dover sostenere pressioni, da parte dei media e delle autorità, in caso di altre situazioni delicate. A loro, infatti, è richiesto di continuare ad operare nello stesso ambiente pericoloso nel quale si sono svolti quei fatti, e se scegliessero di rinchiudersi nei campi al fine di evitare situazioni dolorose come quella in questione, i primi a rimetterci sarebbero gli Afghani, che verrebbero abbandonati a loro stessi".

Come vive un giovane militare italiano una esperienza professionale così forte, in una zona a rischio e con compiti così rischiosi per la propria vita? Che clima si vive?

"Non ho l’età, purtroppo, per farmi interprete dei giovani soldati di oggi. Ma anch’io sono stato un ragazzo e mi sono trovato come loro ad affrontare analoghe esperienze difficili e coinvolgenti (parlo di Libano nel 1981, di Somalia e di Balcani essenzialmente). Non c’è dubbio che queste esperienze maturano molto sotto il profilo morale. Si è a contatto con popolazioni diverse dalle nostre, che si impara velocemente ad ammirare per la forza con cui fanno fronte a difficoltà che per noi sarebbero inimmaginabili. Si vede e si comprende il mondo per quello che è veramente, senza gli effetti distorsivi innescati da quel filtro poderoso che è la televisione. In altre parole, ci si sprovincializza alla svelta e ci si rende conto di quanto il nostro ricco e spaventatissimo Occidente sia in errore nel trattare con supponenza e con disprezzo chi spesso è migliore di noi, per semplicità, frugalità, disponibilità al sacrificio, senso dell’onore e rispetto per le persone. Si capisce, soprattutto, che se siamo nati nella nella parte ricca del mondo non è certamente per nostro merito".

Negli ultimi mesi, riferendosi al conflitto in questa regione, si parla spesso di Af-Pak, ossia di Afghanistan e Pakistan, con riferimento all'allargamento del fronte verso le province confinanti del Pakistan a causa dell'esodo in quelle aree della popolazione civile e degli attacchi talebani provenienti, appunto, dal Pakistan. Gli americani sono attivamente impegnati sul piano militare. Che ordini ha a riguardo il contingente italiano? Cosa pensate di questo decentramento del conflitto verso oriente?

"Afghanistan e Pakistan sono sicuramente legati da un destino comune. L’instabilità in uno dei due paesi non può che riflettersi in una corrispondente instabilità nell’altro. Di questo, ormai, tutta la Comunità internazionale se ne è accorta ed anche i due paesi si stanno comportando di conseguenza, cooperando sempre più fortemente. In ogni caso, tale situazione non incide sui compiti del contingente italiano, che è inquadrato in ISAF, unicamente finalizzata al supporto del Governo afghano. In altre parole, nessun contingente di ISAF è coinvolto con operazioni di alcun genere in Pakistan".

Spesso si ha l'impressione che qualsiasi azione militare americana sia innegabile e giustificata, mentre gli altri contingenti devono inevitabilmente avere il consenso statunitense per muoversi. Oltretutto il presidente afgano Karzai è stato spesso definito “sindaco di Kabul” per sottolineare la sua poca autorità fuori dalla capitale. Com'è il rapporto tra il comando militare italiano e le autorità afgane? Fate riferimento a loro per parlare e decidere interventi militari, o il vostro interlocutore rimangono i vertici militari dell'Isaf guidati dagli americani? L'attacco americano alle province pakistane è stato pianificato con il comando internazionale?

"Il Comandante di ISAF è americano, ma il Comando in se è NATO, vale a dire composto da Ufficiali di tutti i Paesi dell’Alleanza. Il Vice Comandante è britannico ed io, un Italiano, sono il Capo di Stato Maggiore. Sono inoltre presenti Generali tedeschi, francesi, spagnoli, australiani, olandesi e statunitensi, ovviamente. Ai livelli inferiori, la rappresentanza della NATO (e non solo) è estesa. Inoltre, sono anche presenti Ufficiali di collegamento afghani, tramite i quali vengono coordinate tutte le attività operative a supporto dell’Esercito afghano, coinvolto in pieno nelle attività, fin dalla fase di pianificazione".

L'Afghanistan è storicamente un paese quasi impossibile da conquistare. Nel 2001, otto anni fa, gli americani hanno invaso il paese per combattere una guerra globale al terrorismo, in seguito una missione internazionale doveva sconfiggere i talebani e ricostruire un paese democratico. Poi l'Iraq e il conflitto afgano ha perso d'importanza. Oggi si parla ancora della minaccia talebana e sono due i paesi da ricostruire. Qual è il futuro della missione in Afghanistan, quali le reali possibilità e quali gli ostacoli più duri da superare?

"Non c’è dubbio che il futuro dell’Afghanistan dipende da come la politica saprà ricomporre inimicizie che attualmente paiono insanabili. D’altronde, si tratta di un obiettivo difficile da conseguire, se teniamo conto che a 64 anni dalla fine della seconda guerra mondiale anche noi Italiani non siamo riusciti a sanare le ferite che si provocarono vicendevolmente i nostri padri. Questo della pacificazione è un compito che può ricadere solo nelle mani degli afghani. A noi, la funzione di aiutarli, fornendo sicurezza al loro Governo, in modo che espanda la sua autorità ed il suo controllo su tutto il territorio".

mercoledì 20 gennaio 2010

La voce della pancia conservatrice d'America

I repubblicani lo amano e lo temono, i democratici lo odiano e lo vogliono sugli scudi dei repubblicani: si chiama Rush Limbaugh, per gli amici Rushbo, e con il suo talk show su Premiere Radio Network si diverte da morire

da What's Up maggio 2009
Dal 1 agosto 1988 gli americani conservatori si sintonizzano su una banda di 590 frequenze AM e FM attraverso tutto il paese per seguire la voce rauca del profeta dell'ortodossia dei vecchi valori che si diffonde dal suo microfono dorato. Rushbo ottiene in due anni cinque milioni di ascoltatori e oggi sono addirittura venti milioni ad ascoltarlo nel suo show radiofonico. Dopo un esordio come dee jay negli anni settanta, Rushbo si dà alla politica più conservatrice e di destra possibile urlando e arrabbiandosi per vent'anni contro tutto ciò che non è ultra conservatore. Femministe, neri, omosessuali e democratici, questo uomo di mezza età, grasso e ricco (guadagna 40 milioni di dollari l'anno), ha spesso criticato perfino i suoi amici di destra ed è la voce della pancia del popolo repubblicano. Il suo stile ritmato e provocatore ha generato una quantità tale di epiteti e nomignoli, battute e insulti, che elencarli tutti diventa complicato. Basti pensare che, essendo ovviamente contrario alla parità tra uomo e donna, si limita a definire il gentil sesso come “bambole” e le femministe come “feminazi”, oppure ai più recenti attacchi al presidente Obama: in campagna elettorale ritmò sulle note di una vecchia canzone di Paul Shanklin la parodia “Barack the Magic Negro” e all'ultimo congresso repubblicano ha dichiarato di augurarsi che Obama fallisca. D'altronde un uomo tenacemente anti-socialista come poteva considerare la politica presidenziale di aiuti all'economia? All'attacco, dunque, di qualsiasi intervento dello stato e, senza troppe reticenze, del fatto che alla Casa Bianca un nero stona. Circa il 30% del popolo del Grand Old Party ha le stesse idee di Rushbo, un numero insufficiente per determinare il voto, ma abbastanza elevato per mettere nei guai i repubblicani stessi. La consacrazione a leader del partito di Limbaugh, infatti, è giunta da Rahm Emanuel, Capo di gabinetto del Presidente Obama. In questo momento il GOP si trova in una situazione complessa o, come l'ha definita Rushbo: “triste e imbarazzante”. Il nuovo presidente del partito, l'afroamericano Michael Steele, non pare essere in grado di traghettare i repubblicani fino alle prossime elezioni e i suoi tentativi di moderare la spinta a destra sembrano infrangersi proprio contro la popolare pancia del commentatore radiofonico, che poi è anche quella della partito. I democratici, ovviamente, non si sono fatti sfuggire l'occasione di glorificare Limbaugh come icona del conservatorismo. Un uomo non laureato, nato nel Missouri (al centro del Midwest e della Bible Belt, luoghi in cui l'unica cosa sacra quanto Dio è il fucile), misogino, razzista e arricchitosi urlando in un microfono dorato, è quanto di meglio potessero sperare in quel dello Studio Ovale per dare il colpo di grazia ai repubblicani e, anzi, sarebbero ancora più contenti se Limbaugh si mettesse in gioco politicamente. Il fatto interessante è che Rushbo non ci pensa nemmeno a uscire dal suo studio radiofonico dove rimane, contento e divertito di tutto questo parlare di lui: contento perché così potrà giustificare uno stipendio decisamente eccessivo per un commentatore radiofonico e divertito perché, senza farsi troppo pregare, potrà continuare ad urlare, insultare e arrabbiarsi contro chiunque. I poveri repubblicani, intanto, saranno gradevolmente allietati dalla voce tonante di Rushbo, ma se sarà solo quella che ascolteranno probabilmente non vedranno per parecchio tempo uno di loro seduto sulla poltrona più potente del paese.